In questi giorni, copiose nevicate hanno imbiancato le nostre montagne e, specie chi non ne ha potuto già approfittare a causa del lockdown da COVID-19, non sta più nella pelle (anzi…nelle pelli!) e non vede l’ora di farsi una bella sciata. L’entusiasmo è sacrosanto…bisogna, però, essere sempre molto prudenti quando si organizza una gita di scialpinismo e, oltre ad effettuare un’attenta valutazione del rischio valanghe (di cui parleremo in un successivo articolo), è d’obbligo portare con sé i dispositivi per la sicurezza. Chi ha esperienza nel campo avrà già capito di cosa stiamo parlando ma, per i neofiti, non è altrettanto ovvio: ci riferiamo alla triade ARTVA-pala-sonda. Di seguito cerchiamo di chiarire di cosa si tratta.


Che cos’è l’ARTVA?

A.R.T.VA è l’acronimo di “Apparecchio di Ricerca dei Travolti in VAlanga”. Una volta era chiamato ARVA, poi negli ultimi anni è stata aggiunta la T di “travolto”. Insieme a sonda e pala, è uno strumento obbligatorio in diverse regioni per chi fa fuoripista, sci alpinismo o un’escursione sulla neve. Esso serve in caso di travolgimento da valanga: in base alla modalità di utilizzo, trasmette o riceve un segnale che ci permette di identificare una persona sepolta sotto la neve. Durante la gita sulla neve, il nostro ARTVA trasmette un segnale e quindi una posizione tramite delle onde magnetiche. A chi trasmette? A tutti gli ARTVA che, temporaneamente, passano in modalità ricerca.

Barryvox Mammut

Quindi, ogni componente del gruppo deve avere il suo ARTVA.

Se un componente del gruppo viene travolto e ha con sé l’ARTVA impostato sulla modalità “trasmissione”, il suo strumento trasmetterà ma, se nessun altro nel gruppo ha l’ARTVA, sarà impossibile ricevere le onde elettromagnetiche dello strumento del sepolto. Viceversa, se il sepolto non possiede l’ARTVA ma lo possiede soltanto un altro componente del gruppo che non è stato travolto, il sepolto non avrà modo di trasmettere e comunicare la propria posizione.

Ogni componente del gruppo, prima di partire con la gita sulla neve, accende l’ARTVA. Se durante la gita alcuni componenti del gruppo vengono travolti da una valanga e restano sepolti sotto la neve, cosa fanno gli illesi?

Gli illesi devono guardare il loro strumento. Una volta gli ARTVA erano analogici ed emettevano soltanto un “bip” tanto più forte quanto più ci si avvicinava all’ARTVA sepolto. Oggi invece gli ARTVA sono digitali e, oltre ad emettere il suono, sullo schermo ci dicono esattamente dove andare a cercare: nel momento in cui lo strumento emette il segnale di ricezione, contemporaneamente sullo schermo si vede il numero di metri che mancano per arrivare sul punto esatto in cui si trova il sepolto e una freccia che dice se questi metri sono da compiere verso sinistra o verso destra. Quindi bisogna affidarsi assolutamente a quello che dice l’ARTVA, considerando che segue l’onda dello strumento sepolto.

Una volta trovato il corpo del sepolto, servono una sonda e una pala.

Una volta raggiunto il luogo in cui si trova il sepolto, tutti gli strumenti emettono un altro tipo di segnale che avvisa di essere arrivato molto vicino. Ad esempio, se il sepolto si trova sotto 2 o 3 metri di neve, chi lo sta cercando è in piedi e ha l’ARTVA in mano vicino al viso: si può con buona approssimazione affermare che lo strumento dista un metro e mezzo dal suolo. Conviene a questo punto avvicinare l’ARTVA al terreno e metterlo in posizione orizzontale, in modo da guadagnare almeno un metro. Non si sa ancora, però, se il sepolto è esattamente sotto la mano di chi lo sta cercando oppure 2 metri a destra o a sinistra. Si inizia, quindi, la cosiddetta “ricerca a croce”: la mano tenuta sul suolo va avanti, poi arretra, poi si sposta verso sinistra e poi verso destra, seguendo ciò che si legge sullo schermo. Trovato il punto giusto si estrae la sonda: bucando la neve si arriva a sentire dov’è la persona e si trova il punto esatto in cui scavare.

Quale raggio di ricerca ha l’ARTVA?

Sul mercato esistono diversi tipi di strumenti, che presentano raggi differenti sulla base di diversi fattori. Il primo fattore è il numero di antenne che sono internamente incorporate. Gli ARTVA più economici normalmente oggi hanno almeno due antenne. Dato che un’antenna trasmette in una sola direzione, se nell’apparecchio si hanno un’antenna orizzontale, una verticale e una di traverso, il segnale andrà in tre direzioni diverse e quindi sarà più potente. Normalmente la capienza di un ARTVA parte da un minimo di 20 metri, ben sfruttabili nel caso di una valanga di medie dimensioni che ha un’area molto delimitata (è raro trovarsi di fronte a valanghe molto più grandi).

Non è necessario che gli ARTVA siano della stessa marca per comunicare fra loro. Tanti anni fa è stata stabilita a livello mondiale una frequenza uguale per tutti e ovunque: un ARTVA comprato in America trasmette e riceve con la stessa frequenza di un ARTVA italiano.

Prima di uscire sul campo, è necessario imparare a usare non solo l’ARTVA ma anche la sonda e la pala.

Se si ritrova il corpo sepolto, prima con l’ARTVA e poi con la sonda, ma non si sa come scavare, tutta la ricerca sarà stata inutile. Ipotizziamo di trovarci su un pendio inclinato da destra verso sinistra: l’ARTVA riceve il segnale e la sonda viene posizionata in verticale sopra il punto di massimo segnale. Ora bisognerà scavare, in base a quanto affonda la sonda, la stessa distanza moltiplicata per 2 verso valle e spalare orizzontalmente, in modo da portare verso valle la neve che viene spostata.

A chi rivolgersi per imparare a usare il kit di autosoccorso?

Alle Guide Alpine oppure presso le sezioni CAI (Club Alpino Italiano) che organizzano appositi corsi. Un conto è la teoria, che si può trovare anche online, e un altro conto è la pratica, anche perché ci si trova a usare questi strumenti in situazioni difficili, in cui entrano in campo la paura, la fretta e l’angoscia. Anche se si è già esperti, all’inizio di ogni inverno è bene fare sempre e comunque due o tre prove, per essere pronti nel caso dovesse succedere davvero. Questo è molto importante perché, nel caso di una valanga su un terreno privo di particolari criticità, per i primi 15 o 20 minuti ci sono buone probabilità di salvare una persona sepolta. La sopravvivenza di un sepolto, in effetti, dipende in massima parte dall’autosoccorso: è il gruppo stesso che salva chi è rimasto travolto. Nel caso di un soccorso organizzato, invece, le possibilità di trovare vivo chi è sepolto sono minori, sia perché passa molto più tempo, sia perché subentrano fattori quali i traumi o l’ipotermia. Più si agisce in fretta, più si hanno possibilità di salvare la vita del sepolto.

L’attrezzatura per la sicurezza che non può mancare in una gita di scialpinismo
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